categorie: apprendere il futuro

Alfabetizzazione digitale (ad uso delle biblioteche)

In questo periodo mi sto occupando di biblioteche, cercando di contribuire al passaggio verso il digitale che tali presidi della lettura stanno compiendo.

In particolare, nell’ambito del Progetto di ricerca, formazione e intervento sui temi della promozione della lettura, per il superamento del digital divide promosso dalla Provincia di Roma e dal Corso di Laurea Magistrale in Scienze dell’informazione, della comunicazione e dell’editoria, ho realizzato tre seminari rivolti ai bibliotecari della Provincia di Roma.

L’8 dicembre, durante la Fiera Nazionale della piccola e media editoria “Più libri, più liberi” si è svolta la presentazione del progetto e seguendo i link potete trovare l’intervento di Claudia Berni, Lettura digitale e superamento del digital divide: il contributo delle biblioteche del territorio provinciale e le slide di Francesca Vannucchi, Indagine sulla presenza di eBook e di digital lending nelle Biblioteche della Provincia di Roma. Anno 2012 e mie, Promozione della lettura e superamento del digital divide: attività di formazione.

In fondo all’articolo trovate le tre serie di slide che hanno accompagnato i tre seminari e che a breve saranno disponibili anche sul sito del Sistema Bibliotecario della Provincia di Roma.

A conclusione dell’attività formativa (ora ci saranno tre workshop nelle biblioteche sugli ebook, aperti a tutti) tenterò un bilancio dell’iniziativa.

1/3. Lettura digitale, ebook e supporti per la lettura; gli scenari della lettura digitale

2/3. Digitalizzazione: quali strategie; digital lending: come scegliere

 

3/3. Comunicare la biblioteca on line: le risorse digitali sono fatte per viaggiare

Insegnare (e dire e fare) nel digitale

Sono molti ormai gli studenti universitari abituati a studiare su una varietà di testi e documenti in formato digitale:

  • dispense o presentazioni prodotte dai docenti in formato pdf e caricate su archivi dell’università, su depositi on line come Dropbox o su servizi di condivisione come Slideshare e Google doc, sui blog degli stessi docenti;
  • ebook in formato epub, se disponibili, gratuiti o a pagamento;
  • articoli e post reperibili su riviste on line, siti e blog;
  • registrazioni audio/video, quelle autoprodotte durante le lezioni e riascoltate in forma di mp3 con i propri computer e lettori, quelle messe a volte a disposizione dagli stessi docenti, quelle reperibili in rete.

Tali materiali, se le condizioni legali dei documenti lo consentono, vengono scambiati in una varietà di modi ancora più ampia: dalla vecchia fotocopia alla copia dei file attraverso chiavi usb, alla condivisione su Facebook, fino al deposito su qualche Torrent.

Una parte degli studenti universitari italiani, cioè, vive già immersa in un contesto nel quale tanti materiali dedicati allo studio sono prodotti e reperibili in formato digitale (per non parlare di tutto il resto: dai contenuti informativi a quelli di intrattenimento, dai social network ai videogiochi). Tra questi, i contenuti testuali, oltre a essere maggioritari, vengono fruiti per lo più da computer (si tratta in gran parte di file pdf), a volte con smartphone, raramente su tablet o ereader. Ma tutte queste risorse, anche quando reperibili in formato digitale, di frequente vengono stampate su carta per essere studiate, e la prevalenza della carta (dei libri, in questo caso) sembra emergere anche da una recente indagine dell’Aie che, su un campione di 2.196 studenti, attesta l’utilizzo dei manuali tradizionali per l’81,4%, di testi on line per il 30,9%, di ebook per il 19,9%. Un inizio di convivenza, nel quale la carta svolge ancora un ruolo dominante.

Si tratta di una preferenza che, sommata alla dichiarata abitudine di stampare su carta per studiare, risponde assai probabilmente alla scarsa diffusione in Italia di device dedicati alla lettura lean back (comodamente possibile ovunque: in poltrona, nel tram o sul wc, che ancora associamo al libro di carta), ma a mio parere anche all’assenza di ambienti autorevoli e familiari in cui essere sicuri di reperire e ritrovare le informazioni e i contenuti che ci sono necessari.

Scarichiamo, copiamo, installiamo, accumuliamo, come e più di quanto abbiamo fatto e facciamo con i libri di carta. Lo fanno soprattutto coloro tra noi che non hanno una consuetudine con il prestito dei libri (di carta) in biblioteca, ma ci dedichiamo a quest’opera di accumulo un po’ tutti e per diverse ragioni:

  • la percezione che i materiali digitali (ancorché duplicabili all’infinito) siano sommamente volatili e non vi siano sufficienti garanzie di reperirli nello stesso posto a distanza di tempo;
  • la necessità di leggere off line testi lunghi (in proposito riscontro varie soluzioni, dal brutale copia/incolla di articoli on line in documenti di testo – facilmente perdendone le qualità ipertestuali – all’uso di strumenti evoluti come Instapaper);
  • il puro piacere di possedere l’oggetto, per quanto immateriale.

Questa gigantesca opera di accumulo (giga e giga di dati che riempiono hard disk interni ed esterni, chiavette e nuvole di archivi) risponde anche all’assenza di luoghi digitali in grado di trasmettere la sensazione che procura percorrere con lo sguardo la propria libreria (o anche una biblioteca a lungo frequentata e familiare) e rassicurarsi, solo vedendola, di potervi attingere in qualunque momento.

Progetti come Internet Archive, Google Libri, Europeana, o la molto attesa Digital Public Library of America tenacemente voluta da Robert Darnton, per quanto grandi e solidi, non riescono ancora a restituire quel legame con un sapere stratificato nel tempo che ha nei libri di carta, da oltre cinque secoli nella forma più vicina all’oggetto che ancora teniamo in mano, il suo modello e campione.

Che c’entra tutto questo con l’insegnamento? C’entra perché, a maggior ragione in culture, come la nostra, nelle quali il sapere è stato visto più come qualcosa da trasmettere, che come occasione per creare una conoscenza critica condivisa (ovvero, quest’ultima si è formata comunque, ma in ambiti relativamente elitari), è grande lo smarrimento provocato dall’apparente assenza di luoghi deputati a sancire pertinenza e autorevolezza. Uno smarrimento che non riguarda solo coloro che su quel sapere hanno costruito propri poteri e privilegi (legittimi o usurpati), ma anche chi, dovendo abbeverarsi, si lasciava guidare senza timori alla fonte pura, secondo percorsi consolidati e pratiche rigorose (non sempre lineari e trasparenti, però).

Qualche giorno fa ho appreso che la Biblioteca Centrale del CNR (luogo deputato, in Italia, al deposito legale delle pubblicazioni tecnico-scientifiche e Centro di documentazione delle Istituzioni dell’Unione Europea) dal 1961 ha il proprio deposito in una “torre libraria di ben 14 piani“. Proprio così: torre libraria. Non infierisco sulle dotazioni informatiche e di personale che rendono l’accesso a tanto ben di dio alquanto arduo, ma ecco, non vi sentireste anche voi un po’ intimoriti di fronte a tanto alta, fisicamente e simbolicamente, vetta da scalare? E una volta arrivati a comprenderne gli arcani, non provereste un qualche fastidio se qualcuno rendesse accessibile, quanto e più di quel ben di dio, senza le vostre bussole? E infine, trovandovi nel mezzo, e avendo appena iniziato a intuire come fare per raggiungere la cima, non restereste come un rocciatore senza appigli, se durante l’ascensione una copia della torre si proiettasse e spalmasse ai vostri piedi, tutta percorribile senza fatica, ma priva dell’ordine garantito da un piano sopra l’altro?

C’è poco da sorridere, perché la condizione di quello scalatore a metà arrampicata è condivisa da buona parte degli studenti, dei docenti, dei bibliotecari e degli editori, mentre la torre spalmata a terra è contesa tra chi vorrebbe, dall’alto dei suoi strapotenti mezzi, erigere tutt’intorno una siepe curata e fiorita (ma con i fiori più profumati accessibili solo a chi paga, e di più), mentre lei, la torre, quasi fosse un corpo vivente, si adatta, prende forma e autorganizza grazie a sparuti gruppi di volenterosi che hanno imparato, non soltanto i tesori che nascondeva, ma anche le tecniche con le quali erano stati progettati e costruiti.

Quei benemeriti non sono volontari improvvisati con il recondito obiettivo di smantellare conoscenze critiche che abbiamo impiegato secoli a distillare, non sono predicatori dell’indistinto che tutto livella con buona pace di etica ed estetica e giubilo dei piccoli fratelli nazionali, e non sono neppure degli ingenui, sciocchi esecutori del “think positive!” dei Big Brothers globali. Magari qualcuno sì, ma non ci occupiamo di quelli in questa sede. Trattasi invece, per lo più (e inizio a conoscerne molte e molti) di persone che hanno compreso quali potenzialità si dischiudono imparando il modo migliore per usare, insegnare, insegnare a usare, le tecnologie digitali. Ne volete un esempio? Guardatevi lo streaming di Librinnovando che portava il titolo “Insegnare con i bit”:  

In quella occasione è risultato palese come certe sommarie dicotomie – editori/lettori, docenti/studenti, carta/digitale – non solo siano obsolete, ma siano inefficaci a raccontare e raccogliere la straordinaria complessità rappresentata oggi dalla sfida che riguarda l’educazione e la didattica. Questa sfida è tra pensare, e iniziare a sperimentare un sistema dell’istruzione in grado di accogliere i veri nativi digitali quando, a breve, entreranno nelle aule, o restare a guardare, sfruttando per quanto possibile l’attuale situazione (e ciò vale per gli editori, per gli insegnanti, per gli studenti), o, peggio ancora, opporsi a tale processo da posizioni che  confondono le potenzialità del digitale con gli interessi che vi si celano dietro.

Nei ragionamenti compiuti il 28 aprile, invece, abbiamo potuto ascoltare Dianora Bardi, una insegnante che sperimenta, attraverso il digitale, un nuovo modo di fare didattica: usando computer, lavagne interattive, tablet (iPad, ma dice “non ci interessano le marche, ci interessa il cosa e come lo possiamo fare”); che non si sogna neppure di produrre “ilsuolibro”, ma è assai esigente con gli editori, dai quali vuole libri di qualità, utilizzabili per porzioni e con prezzi adeguati; che non indulge affatto sulla preparazione degli studenti, ma vuole guidarli nella ricerca di risorse e fonti autorevoli, nella elaborazione di un proprio percorso di apprendimento e nella produzione di materiali risultato del lavoro collettivo della classe. E a domanda risponde polemicamente a proposito degli insegnanti che appaiono impreparati a simili compiti: “non ci si può sottrarre a questa sfida; non conta l’età, né l’attitudine all’uso delle nuove tecnologie; chi fa questo lavoro deve considerare il suo aggiornamento altrettanto importante della formazione dei suoi allievi”.

Quello di Gino Baldi è stato un altro intervento importante del medesimo panel di Librinnovando, anche perché pronunciato dal responsabile digitale di Giunti, un gruppo leader nell’editoria scolastica italiana. In cima a una lista di quattro punti (ottima la sintesi di Marco Dominici, ma invito anche io a guardare il video), essenziali per governare il cambiamento che ben presto attraverserà il sistema educativo, Baldi indica la necessità di pensare e progettare ambienti di apprendimento in luogo di oggetti per l’apprendimento. Ambienti in cui sia possibile adattare i materiali (resi flessibili e granulari) a gruppi ed esperienze diverse, in cui la funzione editoriale si esplichi attraverso l’organizzazione di un servizio aperto e non più solo attraverso la fornitura di un prodotto chiuso.

Dunque, docenti preparati a guidare gli studenti nella complessità del mondo e ambienti autorevoli che consentano di interpretarlo e sperimentarlo nelle sue molteplici manifestazioni; abbiamo alcuni esempi degli uni e degli altri, quelli dei fiori a pagamento hanno risorse con le quali vanno veloci e nessuno sa ancora che forma avranno domani le torri.

L’immagine in apertura è tratta da qui.

Un’idea di futuro

Un’idea di futuro: è quella che manca in questo Paese da troppo tempo, che è mancata durante la campagna elettorale di queste elezioni regionali e di cui siamo stati tutti privati in nome di un presente avvolto sulla difesa dei propri interessi. E a cui l’oblio del passato presta servizio senza sosta (e smettiamola di sventolare le bandiere di un nuovo senza storia, per favore).

Lo scenario che esce da queste elezioni regionali è pessimo, e non mi appassiona il computo delle regioni che vanno di là e quelle che restano di qua (qua dove?).

Sì, ci sono le eccezioni di Puglia e Basilicata (meno, molto meno, Liguria, Umbria ed Emilia), qualche nome che qui e là riesce a farsi largo tra le nomenclature, ma quello che esce vincente dal risultato elettorale del 29 marzo è il mondo della politica di professione, o quello delle cricche variamente assortite. In tutti i partiti, si vedano i voti di preferenza (e non solo in provincia).

Un terzo di cittadini, quasi il 40% se sommiamo le nulle e le bianche alle astensioni, si sono chiamati fuori, e non penso affatto che fossero tutti a festeggiare l’unica Emma vincente di ieri, quella di Amici.

Occorre tagliare i ponti con un modello di mondo – quello nazionale, fatto di boss e veline e quello planetario, costituito da violenze e spoliazioni senza limite – e pensarne uno diverso, che abbia la forza di attrarre energie, intelligenze, coraggio.

L’ho scritto e lo ripeto: ci tocca pensare al futuro se vogliamo guarire il presente.

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Il lavoro al futuro

Una regione per cervelli fertili, questo vorrei che divenisse il nostro territorio.

Un luogo dove le intelligenze e la creatività siano premiate, dove lo studio e la ricerca siano considerate una preziosa risorsa per tutta la comunità e non un peso per le famiglie o un inciampo del quale liberarsi al più presto.

Investire nel futuro dei giovani, fare in modo che lo studio divenga un piacere si può e si deve fare. L’estensione delle borse di studio, una politica degli alloggi a prezzi contenuti, abbonamenti gratuiti per la mobilità locale, luoghi collettivi per la ricerca e lo studio, accesso alla formazione, stage retribuiti: sono impegni che la regione deve assumere per cambiare il volto delle nostre città e dei nostri paesi, trasformandoli in poli di sviluppo e richiamo internazionale. Va estesa e resa un diritto universale (e non solo un sostegno ai più bisognosi) la legge sul reddito minimo garantito, considerandola un diritto di tutti, soprattutto dei giovani.

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Numerose attività di formazione e ricerca sono finanziate dall’Unione Europea: è necessario e possibile un utilizzo più ampio di tali fondi, esercitando un controllo e una valutazione puntuali su beneficiari e risultati conseguiti.

Valorizzare l’inventiva e il talento dei giovani significa premiare le eccellenze: università, centri di ricerca, istituzioni pubbliche e private possono concorrere alla costruzione di una rete interuniversitaria, aperta alla collaborazione con le imprese, stimolando lo sviluppo della creatività, in particolare di giovani e donne, e sostenendo le iniziative indipendenti. Ricerca scientifica e innovazione tecnologica, integrate con le arti e i beni culturali, possono attrarre risorse e determinare uno sviluppo imprenditoriale utilizzando un contesto, quale il nostro, unico al mondo.

I lavori della conoscenza sono e saranno sempre più il volto del nostro secolo: la formazione permanente, la mobilità e il cambiamento rappresentano la vera sfida del futuro. Il desiderio di migliaia di giovani, non è un posto fisso magari ottenuto per favore, ma di vedere riconosciuto il proprio valore e di poter partecipare alla crescita della propria comunità.

Libertà di conoscenza: diritto all’accesso e alla condivisione

Questo è il testo del mio intervento al convegno “Verso una società della conoscenza“, svoltosi il 12 maggio scorso a Roma e cui hanno partecipato Antono Di Pietro, Pancho Pardi, Giorgio Pressburger, Nicola Tranfaglia e Gianni Vattimo.

Non ha la lunghezza “regolamentare” di un post: perciò se vi interessa conoscere ciò che penso sulle libertà digitali prendete pazienza e datevi un po’ di tempo. In alternativa, qui c’è il pdf che potete scaricare: libertadiconoscenza.

Siamo qui a parlare di un oggetto inesistente: la cultura europea. Potremmo andarcene tutti a casa, allora? No, siamo qui proprio per contribuire a disegnare un panorama culturale per l’Europa nel quale l’Italia, insieme agli altri paesi che compongono l’Unione, trovi un suo spazio e una sua dignità. Magari profittando delle opportunità (anziché occupare a intermittenza gli scranni del Parlamento europeo per deriderle, ignorarle o contestarle, come fa troppo spesso il nostro presente governo), che ci offre l’appartenere a tale contesto.
La cultura europea è segnata, ancora oggi, da due spinte contrapposte: da un lato, l’omologazione prodotta ovunque dai processi di concentrazione globale che investono l’industria culturale come e più di altri settori (per fare un solo esempio: nei Paesi dell’UE, in media, il 70-75% dei prodotti audiovisivi è costituito dai prodotti nordamericani più una quota di nazionali, solo il restante 25-30% è rappresentato da prodotti degli altri Paesi UE); dall’altro, dai particolarismi che, quando va bene, producono il riemergere del folklore locale, in altri casi determinano rigurgiti razzisti e xenofobi dei quali un vergognoso esempio sono le recenti proposte a proposito di posti riservati nei bus.
Insomma, aveva ragione il padre della cultura europea, Jean Monnet, quando diceva che si sarebbe dovuto iniziare da qui, dalla costruzione di un tessuto comune e condiviso di pratiche e immaginari, anziché dagli accordi commerciali bilaterali con i quali si è avviato il processo di unificazione.

Oggi però esiste un terreno rispetto al quale è possibile, necessario e per certi versi obbligato, pensare in grande e affidarsi alle potenzialità che un organismo di dimensioni ben più ampie di quelle nazionali ci consente: quel terreno è la rete, uno spazio dai confini labili, ma lungo i quali si stanno combattendo battaglie assai aspre e sempre più presenti anche nelle cronache di gran parte della stampa, fino a poco tempo addietro disattenta a questo mondo, se non per lanciare allarmi sull’ultimo crimine virtuale.
La fotografia di alcuni recentissimi provvedimenti danno la misura di quanto sia discussa e sede di profondi, quanto confusi, conflitti la volontà di governo di Internet.

– In Francia, dopo una discussione animata in Parlamento e nel paese, il 12 maggio è passata la legge Hadopi (Hadopi è un acronimo che sta per Haute Autorité pour la Diffusion des Œuvres et la Protection des Droits sur Internet. Il testo della legge e un utile commento), definita “ammazza p2p” perché prevede, per chi scarica illegalmente opere dalla rete, sanzioni che potranno giungere alla disconnessione da Internet.
– Il 6 maggio il Parlamento Europeo ha bocciato la proposta di legge che prevedeva il blocco della connessione internet per chiunque commettesse attività illegali come il download piratato di file video e audio da Internet.
– Il 29 aprile, la Camera dei deputati ha stralciato dal ddl sulla sicurezza l’emendamento D’Alia, inutile provvedimento che avrebbe messo in pericolo la libertà in rete.
– Il 17 aprile è stata emessa in Svezia la sentenza del processo a The Pirate Bay, uno dei maggiori siti di scambio di file via internet che ha condannato i fondatori e amministratori del sito a pene severissime.

E si potrebbe continuare, elencando provvedimenti restrittivi che si alternano di giorno in giorno a sussulti di tutela delle libertà, testimoniando la grande confusione che regna nelle aule legislative della UE.

Il bivio cui ci troviamo è questo: privatizzare il mondo dei saperi o percorrerlo liberamente, con equilibri nuovi tra diritti individuali e godimento collettivo? Una domanda che incrocia questioni diverse: dalle forme e garanzie dell’accesso (il digital e cultural divide), a quelle di tutela dei diritti di autori, produttori e consumatori di contenuti (oggi in modo inedito mescolati tra loro). Le incrocia in modo intricato, essendo i destini della rete, della sua esistenza e del suo sviluppo, legati a doppio filo con quelli delle telecomunicazioni, e coinvolgendo perciò interessi vasti e diversificati. Tre sono le grandi questioni da affrontare.

1. La prima questione riguarda il servizio universale: una spina del telefono è un diritto di tutti, ma nel mondo c’è chi un telefono non l’ha mai visto. Cosa può fare l’Europa al riguardo per ristabilire un equilibrio, al suo interno e in relazione con il pianeta?
2. La seconda concerne l’accesso universale: un servizio minimo deve essere offerto a chiunque ne faccia richiesta. Ma cosa accade se solo un’esigua minoranza può giovarsi della banda larga e il resto del mondo dispone, al massimo, di un doppino telefonico? E ancora, potremo accedere a tutto il sapere disponibile in rete, o solo a sue porzioni? Potremmo anche trovarci ad aprire la porta di una stanza vuota, perché i contenuti più interessanti sono stati spostati altrove (Lawrence Lessig, Cultura libera).
3. Il terzo punto ha a che vedere con il servizio pubblico: se la pluralità e democraticità dei saperi e delle informazioni debbano cioè, in qualche modo, essere garantite dagli Stati attraverso forme attive di intervento pubblico.

Alla prima domanda risponde la Risoluzione del Parlamento europeo del 14 gennaio 2008 (che recepisce ed estende i principi esposti nel Trattato di Lisbona), la quale insiste sugli strumenti atti a rendere Internet accessibile al maggior numero di persone, ad esempio attraverso la trasparente concorrenza tra operatori e fornitori di servizi, la neutralità tecnologica e lo sviluppo delle ICT, anche per i servizi di cui aziende europee sono fornitrici a paesi terzi.

La seconda questione è più complessa: riguarda disparità sociali, economiche e geografiche nell’accesso alla tecnologia (connessione standard vs connessione veloce), riguarda differenze culturali nell’accesso ai contenuti (cui possiamo pervenire solo se abbiamo alcune competenze), riguarda infine i dispositivi normativi che regolano le modalità più o meno libere (sia in termini di diritto che di costi) di accesso ai contenuti digitali.
Tale complessità, però, appare assai meno ardua se anziché ragionare guardando alla rete come a un sistema chiuso, al quale solo alcuni, a certe condizioni (perché dotati di alcuni privilegi economici, culturali, geografici, anagrafici) possono accedere, la vediamo nel modo in cui è stata immaginata dai suoi inventori: uno spazio libero dove le idee non perdono valore se si distribuiscono, anzi, più sono distribuite più si dimostrano efficaci e durevoli.
La ricchezza maggiore della rete si può esprimere solo se vengono rimossi gli ostacoli al pieno dispiegamento di queste potenzialità, poiché fondamentalmente attraverso essa passa oggi, e sempre più passerà in futuro, quel bene pubblico globale che è la conoscenza.
Un bene pubblico che non può essere recintato attraverso usi impropri dei brevetti o del copyright, i quali non hanno affatto l’obiettivo di tutelare i legittimi diritti degli autori, quanto quelli delle concentrazioni che producono e detengono le proprietà di una parte ogni giorno più grande delle opere dell’ingegno umano.

È contro questi usi impropri che si è espressa la Dichiarazione di Berlino del 2003  sul libero accesso alla conoscenza scientifica che vincola i firmatari ad adottare, per le proprie opere, formati aperti; che si esprimono un numero sempre maggiore di comunità scientifiche in tutto il mondo (dai medici ai farmacologici ai biologi); che si orientano i giovani musicisti registrando i loro brani con licenze Creative Commons; che si attrezzano le pubbliche amministrazioni attente alla reale accessibilità e trasparenza per tutti i cittadini dei propri documenti e archivi.

Perché non è in discussione qui tanto la gratuità dei contenuti, quanto la certezza della loro disponibilità e la reciprocità dello scambio che questo comporta: per un artista, per uno scienziato, per un autore il danno peggiore per la propria opera, infatti, non è la pirateria ma l’oscurità, l’indisponibilità. Allo stesso modo, un’istituzione pubblica che facesse gli interessi dei cittadini dovrebbe anzitutto preoccuparsi che essi possano liberamente e in qualsiasi momento avere accesso, in una lingua comprensibile e senza costi aggiuntivi, ai documenti che lo riguardano.

Se così guardiamo le cose, capiamo ad esempio che non possiamo ritenere irresponsabili i chimici che si rifiutano di brevettare i farmaci inventati, perché vogliono che le formule di quei medicamenti possano essere utilizzate anche dalle industrie indiane e non solo dalle multinazionali farmaceutiche occidentali.
Capiamo anche che, mutate le condizioni di produzione, fruizione, circolazione, condivisione dei contenuti, ostinarsi a considerare pirati decine e decine di milioni (42 solo negli USA, stima il New York Times) di persone che scambiano file attraverso la rete, non solo rappresenta un’inutile e anacronistica guerra, ma anche uno sperpero di risorse che potrebbero essere investite altrimenti.
Potrebbero essere investite, per esempio, nell’innovazione e nella ricerca di strumenti e processi che consentano di trarre un guadagno equo (il paradosso è solo apparente: esistono già molti esempi del genere, tra i più noti iTunes ed eBay) dalle modalità di scambio cui ormai siamo abituati: basti pensare ai dati di una ricerca recente dove si stima che “gli utilizzatori delle reti p2p acquistano musica legalmente fino a 10 volte in più rispetto a coloro che non effettuano download illegali”.

Il terzo e ultimo punto è degli altri in qualche modo conseguenza: se consideriamo la conoscenza (in tutte le sue forme: dal cinema al trattato scientifico, dalla musica alla formula matematica) un bene comune da tutelare, allora non possiamo lasciare il campo al solo potere regolatore del mercato (che poi tanto regolatore non è), ma dobbiamo anche prevedere, in alcuni casi continuare a farlo, forme di intervento pubblico che ne garantiscano la pluralità, favoriscano il confronto e l’esposizione a opinioni diverse con il conseguente sviluppo delle capacità critiche.

Ciò significa rifiuto della censura, di monopoli e posizioni dominanti e, insieme, accesso diretto alle fonti e trasparenza delle informazioni (Stefano Rodotà, “Il sapere come bene comune”, intervento al Festivalfilosofia di Modena, 15 settembre 2007).
Prerequisiti, questi, perché esista una sfera pubblica in grado di disegnare un’idea di Europa non chiusa nelle identità particolari delle nazioni che la compongono o di se stessa, ma che faccia dell’incontro, e dell’attraversamento delle culture e delle lingue, la propria qualità specifica da spendere nel mondo di domani.

Brutte notizie

Ieri è stata una pessima giornata.

Università suicida

Il Consiglio di Facoltà dell’Università di Tor Vergata ha deciso di chiudere il Corso di Laurea Magistrale dove insegno. Brutto il voto, ma brutta soprattutto la modalità con la quale si è giunti a tale decisione: nessuna analisi dei dati e del lavoro svolto dal nostro e dagli altri corsi, un accordo evidentemente preesistente che ha condotto al voto quasi unanime del CdF (solo 16 voti contrari: 4 docenti e tutti i rappresentanti degli studenti), l’assoluta mancanza di considerazione per gli studenti e le loro opinioni (qui la causa su Facebbok). Il 15 la decisione diverrà operativa con l’invio al CUN dell’offerta formativa della Facoltà: fino a quel momento è ancora possibile sviluppare tutte le azioni per evitare che tale decisione scellerata divenga esecutiva.

Bagni atomici

Dal Senato, intanto, via libera per il ritorno al nucleare in Italia. Con 142 sì e 105 no (sì di Pdl e Udc, no di Pd e Idv) viene data al governo la delega per localizzare i luoghi di costruzione degli impianti, lo stoccaggio del combustibile, il deposito dei rifiuti radioattivi. Ma dove saranno costruite le famigerate centrali? Probabilmente vicino al mare, là dove c’è acqua sufficiente per gli impianti di raffreddamento.

Rei di fuggire dalla miseria

Al ddl sulla “sicurezza” manca solo il voto conclusivo che arriverà con la fiducia di domani. Ieri il primo sì a un provvedimento che ruota attorno alla filosofia perversa di considerare automaticamente responsabile di un reato chiunque (anche un neonato) sia entrato, privo di permesso di soggiorno, in territorio italiano. L’Onu ci attacca e l’Alto commissariato per i rifugiati stigmatizza il governo italiano, le violazioni della Costituzione e della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea si moltiplicano. I singoli provvedimenti (ronde, postini-spia, schedature per homeless, detenzione nei cies fino a sei mesi, ecc.) rappresentano un elenco ignobile, ma è il pensiero ispiratore che confligge con qualsiasi idea di umanità e mi fa vergognare di essere italiana.

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