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Per la Festa dei pirati, intervista a Loretta Napoleoni

Sabato scorso, di passaggio da Roma, Loretta Napoleoni, economista e tra i massimi esperti mondiali di terrorismo, ha accettato di rispondere ad alcune domande sulla libertà di Internet che le avremmo posto se avesse partecipato alla Festa dei pirati in programma per sabato 20 al Teatro Capranica a Roma.

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Per chi preferisce leggere, ecco il testo della chiacchierata:

LUISA: Allora, ciao Loretta. Non ti potremo avere con noi alla festa dei pirati, però io sarei molto felice se tu potessi dirci qualcosa soprattutto sul rapporto tra quanto può avvenire in termini di diffusione delle idee in Rete e le prospettive di crescita economica in un territorio. Loretta Napoleoni è un’economista che molti conoscono e che si è anche candidata per partecipare alle primarie per la scelta del governatore o della governatrice per la regione Lazio. Ci sarebbe piaciuto averla tra i protagonisti della Festa dei Pirati il 20 marzo, però non potendola avere le abbiamo chiesto di darci un contributo video.

LORETTA: Dunque, io in questo momento mi trovo in Cina. Quando voi vedrete questo video mi troverò in uno dei paesi che sono all’avanguardia nella cosiddetta lotta contro il copyright, contro le patenti e soprattutto contro il controllo da parte delle autorità dell’internet. Infatti l’internet come ben sappiamo in Cina viene controllata dal governo centrale. Il mio messaggio in un certo senso è abbastanza semplice, è quello che ho portato avanti anche in alcuni dei miei libri, cioè il fatto che noi ci troviamo in un momento di grandissimo cambiamento dove il tipo di censura, il tipo di patenti, di copyright che è stato applicato alla produzione intellettuale, ecco, in questo particolare momento penso che bisogna cominciare a rivedere il concetto stesso di pirateria all’interno dell’internet, ma anche il concetto stesso di che cos’è il copyright. E su questo devo dire che c’è un approccio diverso nei paesi in via di sviluppo e anche nelle economie emergenti nei confronti dell’approccio tradizionale che è un approccio occidentale. In realtà questa forma di copyright è una forma che impedisce loro di svilupparsi perché blocca la trasformazione della cultura in un prodotto accessibile a tutti. Hanno quindi un concetto completamente diverso anche della produzione intellettuale, e della cosiddetta proprietà intellettuale proprio perché si trovano in una posizione di svantaggio rispetto all’occidente. Sostengono anche che mantenendo questa struttura di copyright, questo tipo di politiche impediscono a questi paesi di svilupparsi. Io devo dire che sono d’accordo su questa cosa: la cultura non può essere messa dentro una scatola, chiusa a chiave, dove solamente una parte del mondo ha questa chiave e quindi solamente una parte del mondo ha accesso. Per questo sono in linea generale positiva alla libera circolazione di idee all’interno della web. Praticamente la web ha dato questa grandissima possibilità a tutto il mondo di poter accedere alle informazioni, però anche al di fuori della web devo dire che sono abbastanza favorevole a una liberalizzazione, ma anche a una riformulazione del copyright che sia più equa nei confronti dei paesi in via di sviluppo e sicuramente che abbia un periodo di tempo in cui il copyright viene controllato molto molto più breve di quello che c’è oggi.

LUISA: Certo, perché tra l’altro quello che si è prodotto in questi anni è una crescita della durata del copyright che a dir la verità non tanto tutela gli Stati, quanto tutela le grandi major produttrici di prodotti multimediali in genere o anche di sapere stampato nel libro. Da questo punto di vista forse potremmo addirittura pensare che proprio internet ci consente oggi delle forme di condivisione oltre che di circolazione della conoscenza che non solo mutano la forma di protezione che scegliamo, che ciascun autore più scegliere di dare alla propria opera, ma cambiano proprio il modo con cui produciamo il sapere, quasi tornando a una forma di intervento sul testo come quella che producevano gli amanuensi quando, ricopiando il testo di un altro, normalmente introducevano anche delle modifiche, poiché non c’era alcuna forma di tutela di quel diritto d’autore che non fosse il citare la fonte dalla quale quel sapere proveniva. Però io vorrei farti un’altra domanda ancora più specifica. Da più parti, soprattutto in Italia, per giustificare una serie di leggi e di procedimenti normativi che mirano a censurare e chiudere la possibilità di utilizzazione di internet è stata addotta a giustificazione per l’adozione di questi provvedimenti la lotta al terrorismo, o comunque la lotta più un generale alle forme di violenza che attraverso la rete si possono diffondere. Secondo te questo è possibile?

LORETTA: Secondo me la censura sull’internet giustificata sulla base che i terroristi possano essere indottrinati e preparati per attacchi terroristici nell’internet è un argomento abbastanza debole. Questo perché se noi guardiamo dall’11 settembre in poi il diffondersi di questo tipo di terrorismo nato attraverso la web in cui il terrorista fai-da-te impara sulla web come fare le bombe e via dicendo, ci rendiamo conto che tutti questi attacchi che questi individui hanno portato avanti non sono andati in porto. Non sono andati in porto perché manca proprio la professionalità. L’internet è un mezzo secondo me fantastico per raggiungere chiunque, anche per imparare tantissimo, ma fare il terrorista non è facile, ci vuole una formazione professionale che è molto simile alla formazione professionale di un soldato professionista. Per cui immaginate se noi potremmo riuscire usando solamente l’internet a preparare i futuri quadri del nostro esercito. Sarebbe assurda questa cosa. Lo stesso concetto può essere applicato al terrorista. Quindi io credo che questo argomento sia un argomento di grossa debolezza, però chiaramente fa molta presa perché c’è sempre questa paura del terrorista dall’11 settembre in poi e quindi è un elemento che può essere facilmente manipolato, è un elemento di grossa propaganda. Però se vogliamo parlare seriamente, ancora oggi un attentato andato in porto fatto dalla A alla Z sulla web non esiste.

LUISA: Senti Loretta, e che cosa pensi di questi nuovi strumenti che sono stati adottati e quasi contestualmente ridicolizzati da alcuni membri del partito pirata tedesco, appunto strumenti di controllo e di individuazione di eventuali terroristi negli aeroporti? Pensi che possano essere efficaci oppure no?

LORETTA: Io penso che una vera politica antiterrorista debba essere una politica che non blocca l’attacco nel momento in cui sta per compiersi. Noi siamo fino ad oggi stati molto fortunati che questi terroristi non abbiano la professionalità dei vecchi terroristi, ad esempio, dell’IRA, o dell’ETA, ma anche delle stesse Brigate Rosse. Se questi individui avessero oggi come oggi la possibilità di avere dei campi di addestramento, di avere una rete, ma non una rete di internet, una rete attraverso la quale indottrinarsi, attraverso la quale creare questa loro professionalità io penso che noi veramente non sapremmo cosa fare. Però in realtà, se vogliamo andare all’origine del problema, certamente ciò non avviene all’aeroporto. Bisognerebbe trovare le cause, le ragioni e il gruppo che c’è dietro. Ma il gruppo non c’è, è questo il problema. Il gruppo non c’è, ci sono individui, molto spesso mitomani, isolati, che attraverso la web decidono di intraprendere quest’avventura terrorista. Quindi ci troviamo in una situazione totalmente diversa da quella del passato.

LUISA: Insomma, secondo te certamente internet non è il veicolo fondamentale né di formazione di questi gruppi, né può essere l’oggetto, lo strumento fondamentale da colpire per azzerare queste possibilità, per sgominare questi gruppi e queste squadre che agiscono nel mondo. Bene, allora ti ringraziamo.

LORETTA: Grazie a voi.

LUISA: Stai bene in Cina e osservala per noi.

LORETTA: Ok. Grazie, arrivederci.

Pirati a Roma per la Rete libera

Il 20 marzo il Teatro Capranica a Roma, dalle 11 alla notte, sarà il luogo per incontri, discussioni, divertimento con blogger, attivisti e artisti della Rete: per un giorno, l’innovazione e la creatività caleranno tra gli stucchi e le colonne di un vecchio palazzo al centro della cittadella del potere, nella Festa dei pirati.

Per un giorno, difensori della libertà di conoscenza, untori di mp3, politici, hacker e amministratori si confronteranno sulle modalità con le quali avviene oggi la produzione e condivisione del sapere. Un sapere profondamente cambiato dalle tecnologie digitali e con il quale tutti dobbiamo confrontarci.

Per un giorno, proveremo a discutere di come siano cambiatati la produzione e il consumo di cultura, di quanto siano obsolete (e di come risultino inefficaci) le norme che regolano il diritto d’autore nel mondo dei bit, di come superare il divario culturale, oltre che di accesso, al sapere digitale, di come respingere al mittente ogni tentativo di limitare la libertà che si esprime attraverso la Rete.

Per un giorno, protagonisti sulla scena non saranno l’ennesimo articolo sui pericoli virtuali o la denuncia di qualche etichetta musicale a difesa dei propri interessi, ma la molteplicità delle produzioni indipendenti, la ricchezza del mix e del remix, la passione del download e dell’upload, le mille gioie della rete.

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Luisa Capelli per le libertà digitali

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Quando abbiamo una buona idea non vediamo l’ora di condividerla con gli amici; se leggiamo un bel libro siamo felici di parlarne e prestarlo, lo stesso accade con un cd o con le foto che amiamo. Ora questo è tanto più facile poiché le parole, le musiche, le immagini compresse in formato digitale possono viaggiare da un computer all’altro, da una persona all’altra come alcuni fa sarebbe stato inimmaginabile.

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Chi tenta di arrestare questa straordinaria possibilità, in nome della tutela legittima degli autori, in realtà si muove in difesa dei propri interessi economici: quelli delle etichette musicali, delle grandi produzioni video e cinematografiche, delle multinazionali della comunicazione. Allora bisogna trovare sistemi efficaci per far sì che gli autori – artisti, scienziati, intellettuali – vedano riconosciuto il proprio lavoro anzitutto attraverso la possibilità di condividerlo, indipendentemente dallo sfruttamento commerciale che dalle loro opere può derivare. Le norme devono perciò corrispondere all’esigenza di preservare per tutti l’accesso alla conoscenza – un bene comune tra i più preziosi per l’umanità – resistendo a tentazioni protezionistiche in difesa di interessi particolari.

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Libertà di conoscenza: diritto all’accesso e alla condivisione

Questo è il testo del mio intervento al convegno “Verso una società della conoscenza“, svoltosi il 12 maggio scorso a Roma e cui hanno partecipato Antono Di Pietro, Pancho Pardi, Giorgio Pressburger, Nicola Tranfaglia e Gianni Vattimo.

Non ha la lunghezza “regolamentare” di un post: perciò se vi interessa conoscere ciò che penso sulle libertà digitali prendete pazienza e datevi un po’ di tempo. In alternativa, qui c’è il pdf che potete scaricare: libertadiconoscenza.

Siamo qui a parlare di un oggetto inesistente: la cultura europea. Potremmo andarcene tutti a casa, allora? No, siamo qui proprio per contribuire a disegnare un panorama culturale per l’Europa nel quale l’Italia, insieme agli altri paesi che compongono l’Unione, trovi un suo spazio e una sua dignità. Magari profittando delle opportunità (anziché occupare a intermittenza gli scranni del Parlamento europeo per deriderle, ignorarle o contestarle, come fa troppo spesso il nostro presente governo), che ci offre l’appartenere a tale contesto.
La cultura europea è segnata, ancora oggi, da due spinte contrapposte: da un lato, l’omologazione prodotta ovunque dai processi di concentrazione globale che investono l’industria culturale come e più di altri settori (per fare un solo esempio: nei Paesi dell’UE, in media, il 70-75% dei prodotti audiovisivi è costituito dai prodotti nordamericani più una quota di nazionali, solo il restante 25-30% è rappresentato da prodotti degli altri Paesi UE); dall’altro, dai particolarismi che, quando va bene, producono il riemergere del folklore locale, in altri casi determinano rigurgiti razzisti e xenofobi dei quali un vergognoso esempio sono le recenti proposte a proposito di posti riservati nei bus.
Insomma, aveva ragione il padre della cultura europea, Jean Monnet, quando diceva che si sarebbe dovuto iniziare da qui, dalla costruzione di un tessuto comune e condiviso di pratiche e immaginari, anziché dagli accordi commerciali bilaterali con i quali si è avviato il processo di unificazione.

Oggi però esiste un terreno rispetto al quale è possibile, necessario e per certi versi obbligato, pensare in grande e affidarsi alle potenzialità che un organismo di dimensioni ben più ampie di quelle nazionali ci consente: quel terreno è la rete, uno spazio dai confini labili, ma lungo i quali si stanno combattendo battaglie assai aspre e sempre più presenti anche nelle cronache di gran parte della stampa, fino a poco tempo addietro disattenta a questo mondo, se non per lanciare allarmi sull’ultimo crimine virtuale.
La fotografia di alcuni recentissimi provvedimenti danno la misura di quanto sia discussa e sede di profondi, quanto confusi, conflitti la volontà di governo di Internet.

– In Francia, dopo una discussione animata in Parlamento e nel paese, il 12 maggio è passata la legge Hadopi (Hadopi è un acronimo che sta per Haute Autorité pour la Diffusion des Œuvres et la Protection des Droits sur Internet. Il testo della legge e un utile commento), definita “ammazza p2p” perché prevede, per chi scarica illegalmente opere dalla rete, sanzioni che potranno giungere alla disconnessione da Internet.
– Il 6 maggio il Parlamento Europeo ha bocciato la proposta di legge che prevedeva il blocco della connessione internet per chiunque commettesse attività illegali come il download piratato di file video e audio da Internet.
– Il 29 aprile, la Camera dei deputati ha stralciato dal ddl sulla sicurezza l’emendamento D’Alia, inutile provvedimento che avrebbe messo in pericolo la libertà in rete.
– Il 17 aprile è stata emessa in Svezia la sentenza del processo a The Pirate Bay, uno dei maggiori siti di scambio di file via internet che ha condannato i fondatori e amministratori del sito a pene severissime.

E si potrebbe continuare, elencando provvedimenti restrittivi che si alternano di giorno in giorno a sussulti di tutela delle libertà, testimoniando la grande confusione che regna nelle aule legislative della UE.

Il bivio cui ci troviamo è questo: privatizzare il mondo dei saperi o percorrerlo liberamente, con equilibri nuovi tra diritti individuali e godimento collettivo? Una domanda che incrocia questioni diverse: dalle forme e garanzie dell’accesso (il digital e cultural divide), a quelle di tutela dei diritti di autori, produttori e consumatori di contenuti (oggi in modo inedito mescolati tra loro). Le incrocia in modo intricato, essendo i destini della rete, della sua esistenza e del suo sviluppo, legati a doppio filo con quelli delle telecomunicazioni, e coinvolgendo perciò interessi vasti e diversificati. Tre sono le grandi questioni da affrontare.

1. La prima questione riguarda il servizio universale: una spina del telefono è un diritto di tutti, ma nel mondo c’è chi un telefono non l’ha mai visto. Cosa può fare l’Europa al riguardo per ristabilire un equilibrio, al suo interno e in relazione con il pianeta?
2. La seconda concerne l’accesso universale: un servizio minimo deve essere offerto a chiunque ne faccia richiesta. Ma cosa accade se solo un’esigua minoranza può giovarsi della banda larga e il resto del mondo dispone, al massimo, di un doppino telefonico? E ancora, potremo accedere a tutto il sapere disponibile in rete, o solo a sue porzioni? Potremmo anche trovarci ad aprire la porta di una stanza vuota, perché i contenuti più interessanti sono stati spostati altrove (Lawrence Lessig, Cultura libera).
3. Il terzo punto ha a che vedere con il servizio pubblico: se la pluralità e democraticità dei saperi e delle informazioni debbano cioè, in qualche modo, essere garantite dagli Stati attraverso forme attive di intervento pubblico.

Alla prima domanda risponde la Risoluzione del Parlamento europeo del 14 gennaio 2008 (che recepisce ed estende i principi esposti nel Trattato di Lisbona), la quale insiste sugli strumenti atti a rendere Internet accessibile al maggior numero di persone, ad esempio attraverso la trasparente concorrenza tra operatori e fornitori di servizi, la neutralità tecnologica e lo sviluppo delle ICT, anche per i servizi di cui aziende europee sono fornitrici a paesi terzi.

La seconda questione è più complessa: riguarda disparità sociali, economiche e geografiche nell’accesso alla tecnologia (connessione standard vs connessione veloce), riguarda differenze culturali nell’accesso ai contenuti (cui possiamo pervenire solo se abbiamo alcune competenze), riguarda infine i dispositivi normativi che regolano le modalità più o meno libere (sia in termini di diritto che di costi) di accesso ai contenuti digitali.
Tale complessità, però, appare assai meno ardua se anziché ragionare guardando alla rete come a un sistema chiuso, al quale solo alcuni, a certe condizioni (perché dotati di alcuni privilegi economici, culturali, geografici, anagrafici) possono accedere, la vediamo nel modo in cui è stata immaginata dai suoi inventori: uno spazio libero dove le idee non perdono valore se si distribuiscono, anzi, più sono distribuite più si dimostrano efficaci e durevoli.
La ricchezza maggiore della rete si può esprimere solo se vengono rimossi gli ostacoli al pieno dispiegamento di queste potenzialità, poiché fondamentalmente attraverso essa passa oggi, e sempre più passerà in futuro, quel bene pubblico globale che è la conoscenza.
Un bene pubblico che non può essere recintato attraverso usi impropri dei brevetti o del copyright, i quali non hanno affatto l’obiettivo di tutelare i legittimi diritti degli autori, quanto quelli delle concentrazioni che producono e detengono le proprietà di una parte ogni giorno più grande delle opere dell’ingegno umano.

È contro questi usi impropri che si è espressa la Dichiarazione di Berlino del 2003  sul libero accesso alla conoscenza scientifica che vincola i firmatari ad adottare, per le proprie opere, formati aperti; che si esprimono un numero sempre maggiore di comunità scientifiche in tutto il mondo (dai medici ai farmacologici ai biologi); che si orientano i giovani musicisti registrando i loro brani con licenze Creative Commons; che si attrezzano le pubbliche amministrazioni attente alla reale accessibilità e trasparenza per tutti i cittadini dei propri documenti e archivi.

Perché non è in discussione qui tanto la gratuità dei contenuti, quanto la certezza della loro disponibilità e la reciprocità dello scambio che questo comporta: per un artista, per uno scienziato, per un autore il danno peggiore per la propria opera, infatti, non è la pirateria ma l’oscurità, l’indisponibilità. Allo stesso modo, un’istituzione pubblica che facesse gli interessi dei cittadini dovrebbe anzitutto preoccuparsi che essi possano liberamente e in qualsiasi momento avere accesso, in una lingua comprensibile e senza costi aggiuntivi, ai documenti che lo riguardano.

Se così guardiamo le cose, capiamo ad esempio che non possiamo ritenere irresponsabili i chimici che si rifiutano di brevettare i farmaci inventati, perché vogliono che le formule di quei medicamenti possano essere utilizzate anche dalle industrie indiane e non solo dalle multinazionali farmaceutiche occidentali.
Capiamo anche che, mutate le condizioni di produzione, fruizione, circolazione, condivisione dei contenuti, ostinarsi a considerare pirati decine e decine di milioni (42 solo negli USA, stima il New York Times) di persone che scambiano file attraverso la rete, non solo rappresenta un’inutile e anacronistica guerra, ma anche uno sperpero di risorse che potrebbero essere investite altrimenti.
Potrebbero essere investite, per esempio, nell’innovazione e nella ricerca di strumenti e processi che consentano di trarre un guadagno equo (il paradosso è solo apparente: esistono già molti esempi del genere, tra i più noti iTunes ed eBay) dalle modalità di scambio cui ormai siamo abituati: basti pensare ai dati di una ricerca recente dove si stima che “gli utilizzatori delle reti p2p acquistano musica legalmente fino a 10 volte in più rispetto a coloro che non effettuano download illegali”.

Il terzo e ultimo punto è degli altri in qualche modo conseguenza: se consideriamo la conoscenza (in tutte le sue forme: dal cinema al trattato scientifico, dalla musica alla formula matematica) un bene comune da tutelare, allora non possiamo lasciare il campo al solo potere regolatore del mercato (che poi tanto regolatore non è), ma dobbiamo anche prevedere, in alcuni casi continuare a farlo, forme di intervento pubblico che ne garantiscano la pluralità, favoriscano il confronto e l’esposizione a opinioni diverse con il conseguente sviluppo delle capacità critiche.

Ciò significa rifiuto della censura, di monopoli e posizioni dominanti e, insieme, accesso diretto alle fonti e trasparenza delle informazioni (Stefano Rodotà, “Il sapere come bene comune”, intervento al Festivalfilosofia di Modena, 15 settembre 2007).
Prerequisiti, questi, perché esista una sfera pubblica in grado di disegnare un’idea di Europa non chiusa nelle identità particolari delle nazioni che la compongono o di se stessa, ma che faccia dell’incontro, e dell’attraversamento delle culture e delle lingue, la propria qualità specifica da spendere nel mondo di domani.

Proprietà intellettuale e condivisione della conoscenza

Sono trascorsi pochi giorni dalla sentenza del processo a The Pirate Bay, uno dei maggiori siti di scambio di file via internet (qui un post interessante con successiva discussione).
Di copyright, file sharing, mp3 e pdf che circolano in rete si continua a parlare, non solo in Italia, quasi unicamente per affermare il diritto delle major discografiche o degli editori a difendere i propri interessi economici. Tornerò su questi argomenti; intanto, sottraendoci ai luoghi comuni del mainstream informativo, vi propongo una storia esemplare (passata quasi inosservata sulla stampa), che mostra come la condivisione della conoscenza abbia ben altra portata.

Ilaria Capua, una ricercatrice italiana che dirige il Centro di referenza per l’influenza aviaria dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie, nel 2006, in piena “emergenza aviaria”, individua il virus africano della malattia. L’Organizzazione Mondiale della Sanità le propone di entrare in un “club” di ricercatori che hanno accesso riservato a un database in cui vengono scambiati (ma solo tra coloro che ne fanno parte) i risultati delle ricerche. Consapevole dell’importanza della scoperta compiuta dal suo laboratorio, e degli effetti positivi che una sua circolazione rapida ed estesa può produrre nell’arresto della diffusione del virus, declina l’offerta dell’OMS e inserisce l’esito del suo studio in Genbank, un archivio digitale aperto (nel quale, cioè, le ricerche pubblicate sono di pubblico dominio, accessibili a chiunque, in particolare a tutta la comunità scientifica, senza limitazioni proprietarie o commerciali).
Nel 2007 la dottoressa Capua ha vinto il premio SciAm50 per la leadership in science policy assegnato dalla rivista “Scientific American” e nel 2008 figura tra le cinque “Revolutionary Minds” dell’anno per la rivista americana Seed Magazine.

A proposito di copyright e copyleft, proprietà intellettuale e condivisione della conoscenza il Parlamento europeo può fare molto, ne scriverò prossimamente. Intanto, chi vuole saperne di più, può leggere questo post di Arturo di Corinto e navigare tra i link che trova qui a fianco.

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