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Il 6/7 giugno in Europa: sempre meno a votare, sempre più a destra

Il primo dato da cui far discendere ogni riflessione sul voto di sabato e domenica è quello dell’astensionismo. Che peso potrà avere, sulle scelte importanti che sarà chiamato a compiere, un Parlamento europeo votato da una minoranza di elettori, pari al 43% degli aventi diritto?

C’è qualcuno, nelle stanze dove in queste ore si guerreggia per l’assegnazione dei posti e si decide quali aggettivi usare per nascondere le perdite, che si occupi, e preoccupi, del così alto numero di cittadini europei che ha espresso la propria sfiducia verso i partiti e l’istituzione che a livello continentale li rappresenta? Non mi pare, e non è un buon segno.

Il secondo elemento da rilevare è il successo dei partiti di centrodestra in tutta Europa e la buona affermazione dei partiti di estrema destra, che hanno fatto del razzismo e della chiusura delle frontiere la loro bandiera.

Terzo punto: socialisti, socialdemocratici e laburisti, come i democratici italiani, perdono ovunque (con l’eccezione di Grecia e Svezia), in qualche caso con sconfitte storiche (due partiti della sinistra italiana scompaiono del tutto, privando di una rappresentanza il 6,5% di elettori).

Crescono i verdi, più per il rilievo affermato da tanti cittadini verso le questioni ambientali – un voto di opinione che in parte sostituisce quello a sinistra – che per la consegna di un mandato pieno a governare dato a quei partiti.

Prende il 7% e un seggio il Partito Pirata in Svezia, portando per la prima volta al Parlamento europeo le istanze del popolo della rete.

Un Parlamento spostato a destra, nel quale il Partito popolare rappresenta il primo partito, con circa 270 seggi su 736.

Tempi duri per chi immagina un’Europa aperta, crocevia di idee e persone, terra di culture che la arricchiscono, dialogando e trasformandosi l’una con l’altra.

Per fortuna c’è Obama (per chi lo avesse perso, consiglio la visione del recente discorso al Cairo) a mostrarci che è possibile pensare il mondo in modo diverso, e che la politica, in particolare quella internazionale, può non essere segnata solo dai conflitti e dal potere dell’uno sugli altri.

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Perché non andrò a votare al referendum del 21 giugno

Il 21 giugno siamo chiamati a pronunciarci su tre quesiti referendari riguardanti la legge elettorale vigente: i primi due quesiti riguardano il premio di maggioranza alla lista più votata e la soglia di sbarramento al 4% per l’elezione della Camera e all’8% per il Senato; il terzo prevede l’abrogazione delle candidature multiple (uno stesso candidato, cioè, non potrebbe più presentarsi in diverse circoscrizioni elettorali).

Le tre domande poste agli elettori non sono, in effetti, abrogative della legge attuale; piuttosto, esse servirebbero a “ritoccare” la legge “porcellum” senza modificarne gli aspetti sostanziali. Al terzo quesito sarebbe giusto votare un bel SÌ: che si candidino solo coloro disposti effettivamente a rappresentarci se eletti, e non gli specchietti-acchiappa-elettori. Ma vediamo gli altri due.

Sui primi due quesiti, le alternative possibili sono tre:

1. Vince il NO, la legge rimane inalterata e rafforzata da un voto popolare che potrebbe essere utilizzato per sostenerla.
2. Vince il SÌ, la legge viene modificata nella direzione prevista dai quesiti e il sistema politico si trasforma da bipolare a bipartitico, grazie al premio che assegnerebbe la maggioranza assoluta dei seggi alla lista di maggioranza relativa.
3. La situazione rimane inalterata per mancato raggiungimento del quorum al referendum e i partiti continuano a sentirsi vincolati all’approvazione di una nuova legge che elimini l’attuale “porcellum” e dia al nostro Paese una legge elettorale degna di questo nome.

Entrambe le prime due alternative, alla luce dei pronunciamenti del Presidente del Consiglio, ci consegnerebbero una legge resa più forte dal voto popolare e che perciò difficilmente verrebbe modificata (senza contare che, se si fosse voluto farlo, ciò sarebbe avvenuto da tempo).

A maggior ragione oggi ritengo che sbagli chi si ostina a scegliere di votare SÌ: il successo di questa posizione consegnerebbe a Berlusconi la ragione per andare a elezioni anticipate con la nuova legge elettorale, il Pdl otterrebbe una maggioranza schiacciante e il Pd resterebbe superstite indebolito di uno schieramento desertificato.

Sono da sempre dell’idea che su materie come la legge elettorale non si debba ricorrere al referendum. Eleggiamo a tale scopo i nostri rappresentanti in Parlamento: facciano il loro dovere, sappiano trovare gli accordi necessari a legiferare rispettando la volontà degli elettori.
Perciò sostengo che l’astensione a questo referendum sia la più coerente scelta di partecipazione attiva alla vita democratica del nostro Paese, come spiega estesamente qui Pancho Pardi.

E per chi non vuole rinunciare alla possibilità di esprimere il suo voto sul terzo quesito, o rifiuta l’idea di non recarsi al seggio, esiste sempre la possibilità di riconsegnare la scheda non votata al presidente di seggio (eventualmente facendo verbalizzare la propria posizione).

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