I libri, la Rete, la politica

Quindici anni fa ho scelto di dedicare la mia vita a fare libri. Metterne con cura insieme gli elementi che li rendono concreti: autori, testi, carte, idee, immagini e colori, traduttori, agenti e molti altri. Un mestiere appassionante quando ti consente di interpretare un bisogno di riflessione e conoscenza, irripetibile quando ti offre la possibilità di anticipare ed esprimere una domanda che attende di trovare modi e luoghi per essere posta.

Da alcuni anni questo straordinario lavoro è divenuto una corsa a ostacoli, forse anche per errori o troppa ostinazione, certamente a causa di un contesto in cui i libri rappresentano un dono che sempre meno persone fanno a se stesse [1]. Soprattutto quei volumi che chiedono tempo e fatica, che a volte devi leggere con un dizionario accanto o che puoi comprendere solo se ne hai letti altri che ti consentono di ricostruire le piste, a volte sottilissime, di un pensiero critico sul presente che non si adagia in semplici risposte o in osservazioni falsamente neutre.

Il mercato dei libri, come l’informazione, in Italia (e non solo qui, come già dieci anni fa denunciava André Shiffrinnel suo Editoria senza editori) è bloccato [2], ridotto a rigenerare per lo più il medesimo “prodotto” finché il circolo (vizioso) ne sostiene la vita finanziaria: ricerca del best-seller, titoli-cloni, semplificazione di linguaggio e struttura dei testi, promozione e recensioni organizzate, distribuzione e commercio ormai militarmente occupati dalle grandi concentrazioni editoriali e dalle catene di vendita. Eccezioni ovviamente ci sono, alcune nicchie resistono, piccoli editori con buone vendite di un libro o di un autore sopravvivono. Ma di eccezioni si tratta.

La Meltemi, per esempio, con le vendite in libreria non rientra neppure dei costi di produzione [3] ed è indispensabile cercare finanziamenti a monte: dalle istituzioni (fondazioni, università, associazioni), dagli stessi autori (che rinunciano ai diritti e/o acquistano copie), da privati (filantropi o persone interessate a farsi pubblicità attraverso il libro). L’editoria di ricerca, in Italia e non solo, vive grazie a questi contributi, non sempre trasparenti e spesso risultato di scelte che poco hanno a che fare con il merito e la qualità dei testi.

Non è questa la sede per entrare nel dettaglio dei meccanismi perversi che ho tratteggiato, il risultato è chiaro, però: gli spazi per tutto quanto “non conforme” si vanno gradualmente riducendo (e aggiungo, per gli ingenui o chi non vuol capire, che conformi sono anche, per esempio, tanti pamphlet di denuncia pienamente integrati nel sistema).

A questa situazione sconfortante si aggiungono le pratiche di “autodifesa” dei lettori (soprattutto gli studenti, tenuti ad acquistare i libri per lo studio): fotocopie e, sempre più spesso, file piratati reperibili on line. Non a caso le chiamo pratiche di autodifesa, poiché considero la necessità di risparmio per l’acquisto dei libri un problema reale (anche se ricordo che la sola spesa per “gratta e vinci” in Italia è circa due volte e mezzo il fatturato del mercato editoriale…).
In coloro che scelgono di scaricare un libro dalla Rete, come ho sostenuto anche qui, pur se contravvenendo le attuali norme sul diritto d’autore, io non vedo pericolosi criminali. Vedo piuttosto persone, spesso ma non sempre giovani (come mostra Luca Neri nel suo La baia dei pirati), che sempre più si abituano a cercare in rete i contenuti in formato digitale: se li trovano disponibili a prezzi contenuti di frequente li acquistano, altrimenti se li procurano, esattamente come fanno con i file musicali o cinematografici. E questo avverrà in misura sempre maggiore con la diffusione (e il relativo abbassamento dei costi) dei lettori di e-book, che superano gli inconvenienti della lettura sugli schermi retroilluminati e consentono l’archiviazione di quantità enormi di dati in un supporto di dimensione e peso inferiori a quelli di un libro.
Con un po’ di ritardo, ma con molte probabilità, avverrà per i libri ciò che è accaduto a cd e dvd, e che sta travolgendo l’informazione quotidiana: come da tempo in diversi sottolineano, recentemente con particolare assiduità Giuseppe Granieri (qui discute dell’e-book come “format” per il web e di self-publishing, ma molti post sono dedicati all’argomento).

È un male che questo accada? Secondo me no.

Poiché penso, compiendo un passo ulteriore rispetto alle valutazioni interne a una logica di mercato (quelle cioè che vedono in Amazon, iTunes, YouTube o altri dei campioni anticipatori che riescono a guadagnare dove altri falliscono [4]), che i punti sui quali dovremo confrontarci riguardano i temi della proprietà intellettuale, della conoscenza come bene comune e della libertà della Rete.

Per quel che riguarda la proprietà intellettuale, il passaggio dei diritti d’autore dalle mani degli editori tradizionali a quelle di piattaforme come Amazon (che sempre più si qualifica come un operatore a tutto campo nel mondo del libro), non garantisce affatto una maggiore libertà d’uso, disponibilità e conservazione dei contenuti digitali. Cambia il formato dei contenuti (dal libro al file, dagli atomi ai bit), diminuiscono vertiginosamente i costi di produzione e distribuzione, si moltiplicano le possibilità di circolazione, ma non cambiano le regole che potrebbero consentire, un giorno o l’altro, a operatori quali Apple, Google o Amazon di stabilire prezzi e determinare le scelte del mercato (che non è libero, soprattutto quando si profilano, come in questo caso, concentrazioni monopolistiche), esattamente come avviene oggi per l’editoria tradizionale.
Il problema da affrontare in questo ambito è, dunque, se consideriamo l’attuale normativa sul diritto d’autore un moloch immodificabile (o modificabile, come è avvenuto negli ultimi decenni, solo verso una sua estensione in termini di durata e di “oggetti protetti”), oppure se iniziamo a valutare le diverse opzioni che vanno diffondendosi tra autori e detentori di brevetti (le principali: Creative Commons, GNU General Public License, GNU Free Documentation License [5]) come percorsi possibili per un cambiamento legislativo che tuteli effettivamente gli autori, i contenuti e chi ne fruisce e non solo (o quasi) chi ne fa commercio. O ancora, se intendiamo restare con le mani in mano, mentre le grandi concentrazioni dell’entertainment e delle telecomunicazioni (vedi ad esempio le ombre contenute nel pur importante “Pacchetto Telecom” approvato dal Parlamento europeo lo scorso novembre) sferrano ulteriori attacchi contro gli utenti di Internet (più o meno sostenuti dai governi) per resistere a una capitolazione alla quale sono ormai consapevoli di essere destinati.

La questione si sposta quindi su quale sia la nostra visione della conoscenza, alla luce della trasformazione dei contenuti da analogici in digitali e della illimitata possibilità della loro circolazione attraverso Internet. Faccio mie, in proposito, le diverse proposte elaborate da Elinor Ostrom (Nobel per l’economia nel 2009 grazie ai suoi studi sull’organizzazione della cooperazione nella governance economica) e dagli autori dell’approfondito volume La conoscenza come bene comune, e tento di offrirne una sintesi (estremamente semplificata, ma ne avevo scritto più estesamente qui).

Privatizzare e recintare il mondo dei saperi (nelle loro nuove forme digitali) o percorrerlo liberamente, con equilibri nuovi tra diritti individuali e godimento collettivo? Una domanda che incrocia molteplici questioni: dalle forme e garanzie dell’accesso (divari digitali e culturali) alla tutela dei diritti di autori, produttori e consumatori delle opere, dilatando la discussione dalla gratuità o meno dei contenuti alla certezza della loro disponibilità; una domanda che implica risposte di governance che considerino la conoscenza in Rete come un bene comune e un diritto di cittadinanza, riconoscendone il valore di sistema estensivo del mondo relazionale e informazionale della nostra società.
In questa sfida siamo tutti coinvolti: singoli cittadini, imprese, istituzioni; ma appare evidente come siano necessari e impellenti orientamenti politici chiari che non contrastino solo a parole, o con prese di posizione occasionali connesse all’opposizione sugli ennesimi legge, decreto o progetto di legge (dalla Hadopi in Francia, al Digital Millennium Copyright Act negli Stati Uniti, alla pletora di provvedimenti approvati o in arrivo in Italia), strategie di limitazione, censura, soffocamento della libertà della Rete presenti, pur con diversa aggressività, ovunque nel mondo.
Su alcune proposte, sia sotto il profilo imprenditoriale (come casa editrice) che in termini politici, tornerò più avanti (anche per non estenuare gli impavidi che hanno avuto la tenacia di leggere fino a questo punto). Nel frattempo, riassumo nei due punti seguenti le piste lungo le quali intendo muovermi, nell’una e nell’altra direzione:

  • individuare, in accordo con gli autori, forme di accesso libero e gratuito ai contenuti che ne garantiscano la permanenza nel tempo e non “recinzione” e che coesistano con la vendita dei file digitali dei libri a prezzi competitivi con il mercato delle fotocopie;
  • elaborare un piano di politiche attive che non si limitino alla difesa della neutralità della Rete, ma stimolino la partecipazione dei cittadini alle discussioni e deliberazioni pubbliche, alla condivisione dei contenuti, alla disponibilità e democratizzazione delle informazioni della Pubblica Amministrazione [6], a partire dai contenuti della Carta per l’Innovazione, la creatività e l’accesso alla conoscenza sottoscritta a Barcellona nel novembre scorso.

L’impegno che considero non più rinviabile, almeno per me, oltre a promuovere e sostenere ogni iniziativa di contrasto alle politiche nazionali che minano le libertà di Internet, come quelle che ci hanno spinto a indire lo sciopero dei blogger il 14 luglio scorso, a sottoscrivere la “Carta dei Cento“, a lanciare l’appello “Libera rete in libero Stato” lo scorso mese di dicembre, ad aderire alla nuova iniziativa in cantiere dei Corsari della rete e a quelle programmate dai pirati per il prossimo futuro, è quello di intraprendere un’azione propositiva sui due terreni nei quali ho la possibilità di esprimere più che una protesta.

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Note
[1] I dati in Italia parlano chiaro: i lettori “forti” restano una minoranza e cala il fatturato del settore.

[2] Nelle discussioni seguite alla pubblicazione del libro in Italia molti operatori del settore commentarono che noi eravamo ancora distanti dalla drammatica situazione nordamericana e che la vivacità e pluralità del mondo editoriale italiano avrebbe sviluppato anticorpi sufficienti a evitare l’affermarsi di monopoli e concentrazioni pari a quelli statunitensi. Viene da ridere a fotografare oggi la situazione del mercato editoriale librario in Italia: 6 gruppi da soli detengono circa il 70% del mercato (Mondadori con il 30%, oltre a RCS, GEMS, De Agostini, Giunti e Feltrinelli), altri 50 editori si dividono una fetta di circa il 20% e i restanti più o meno 7000 spetta il residuo 10%.

[3] Nell’anno di uscita, in media, ogni titolo vende circa 200 copie, ma negli anni successivi le vendite calano drasticamente, anche a causa dell’espulsione dalle librerie. Il 60% circa del prezzo di copertina va a coprire i costi di distribuzione (45-50% di cui il 25-30% è destinato alle librerie), promozione (8-10%), magazzino e trasporti (5-6%). Su un volume che costa 10 euro, quindi, 6 euro vanno in costi successivi alla produzione. Gli altri 4 euro dovrebbero riuscire a coprire i costi tipografici, redazionali, i diritti d’autore e i costi fissi della casa editrice. Vendendo 200 copie il ricavo è di 800 euro: non ci si paga neppure la tipografia, appunto; e per di più quegli 800 euro arrivano all’editore almeno tre mesi dopo la vendita delle copie, obbligando a ricorrere al credito bancario, con i suoi costi ulteriori.

[4] Un autore fondamentale per comprendere tale posizione è Chris Anderson, direttore della rivista Wired; di lui si vedano: La coda lunga e Gratis.

 

[5] Esempi ce ne sono tanti. Qui citavo quello di Ilaria Capua, ricercatrice italiana che non ha ricevuto l’attenzione che avrebbe meritato quando ha deciso di registrare l’esito delle proprie ricerche in un archivio digitale aperto anziché cederlo all’Organizzazione Mondiale della Sanità.

[6] Su questo tema mi sono già impegnata durante la campagna elettorale per le europee, sottoscrivendo il Patto per il software libero.