19 luglio 2009

Ho vissuto in Sicilia circa due anni, vicino a Catania.
Uno dei ricordi più vividi e straordinari che ho di quella terra sono le passeggiate che insieme al mio compagno facevamo nella campagna intorno a Caltagirone. Ci piaceva camminare nei poggi vicini al sito archeologico di Sant’Ippolito, dove si estende una vasta necropoli siculo-greca. Giungevamo in quelle ampie colline incolte al mattino presto, prima che il sole si facesse incandescente, e spesso le trovavamo segnate da ampi e profondi solchi prodotti dai trattori. Ma non si trattava di arature destinate a preparare il terreno per le coltivazioni. No, il compito dei trattori era smuovere la terra predisponendola ai sopralluoghi degli apparecchi cercametalli.
Un “rodato” sistema di saccheggio del territorio, in questo caso dei beni archeologici, replicava un tristissimo copione che, per estrarre i metalli – più “facili”, per dimensioni e redditività – distruggeva ogni altro manufatto presente sotto terra.
Procedere per quelle terre dopo tali passaggi significava incontrare, quasi a ogni passo, frammenti di terraglie maciullati dalle ruote o dalle pale dei macchinari agricoli. Raccoglievamo cocci, assemblando pezzi e immaginando oggetti che ai nostri occhi rappresentavano tra le cose più preziose di quel territorio: per la storia, le abilità, la cultura di un popolo.
Nessuno osava ribellarsi e men che meno denunciare: a organizzare e gestire saccheggio e commercio erano famiglie note e temute della zona. E d’altra parte – questa era la giustificazione –, perché salvare qualche coccio destinandolo a finire in uno scantinato di museo?

Questo senso di impotenza, di sfiducia nello Stato, e prima ancora l’abitudine arresa al sacco delle ricchezze umane e ambientali, è una ferita sempre aperta in Sicilia. Una ferita che questa sera a Palermo – e in qualche altro luogo – si tenta di sanare.

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La lettera di Salvatore Borsellino

Innanzitutto non vorrei che quello che stiamo preparando venisse chiamato o inteso come “commemorazione”.

Le commemorazioni si fanno in Via D’Amelio a Palermo ormai da 17 anni e quello che io voglio fare è proprio spezzare questa catena che sta diventando ormai una abitudine. Per alcuni, i palermitani, forse gli stessi che parteciparono alla cacciata dei politici dalla cattedrale di Palermo il giorno dei funerali dei ragazzi della scorta e che oggi sembrano avere dimenticato quei momenti di indignazione e di rivolta, è un momento per risollevarsi dall’indifferenza e dall’assuefazione nelle quali sono ricaduti e per giustificare davanti alla propria coscienza, con una sempre più stanca partecipazione di qualche ora di quel giorno, il loro silenzio di oggi, Per altri, i complici morali o materiali di quella strage, è un periodico ritornare sulla scena del delitto ed assicurarsi che le vittime siano state effettivamente eliminate; il mettere corone e sentire suonare il silenzio è qualcosa che psicologicamente li rassicura, è proprio il silenzio che vogliono fare calare sui veri motivi e i veri mandanti di quella strage.
Ma quel giorno il buio che questo sistema di potere ha fatto calare su tutto quanto riguarda Via D’Amelio, il centro del SISDE sul castello Utveggio, l’agenda rossa sottratta e per cui viene negato anche un dibattimento in un pubblico processo, si deve necessariamente interrompere e per un giorno i riflettori sono accesi e illuminano tutta la scena. E’ questo momento di pausa nelle tenebre che io voglio sfruttare per fare arrivare alla massa inerme dell’opinione pubblica il nostro grido di verità e di giustizia. E’ perché questo grido sia abbastanza forte e faccia tremare gli avvoltoi che come ogni anno caleranno in via D’Amelio è necessaria una massa di gente, che, ognuno con la sua agenda rossa levata in altro a simboleggiare la nostra voglia di Giustizia, gridi a questi impostori, a questi sciacalli, la propria rabbia. Ma non si potrà esprimere per questa iniziativa una solidarietà di massima, dire che Palermo è troppo lontana, che non si ha il tempo. E’ troppo spendere un giorno della nostra vita per chi ha dato la nostra vita per noi? Questa non deve essere una manifestazione qualsiasi, deve essere quella scintilla che dovrà provocare un incendio nella massa amorfa di chi non sa, non si rende conto del baratro in cui è precipitato il nostro paese. Da Palermo è cominciato tutto e a partire da Palermo tutto deve cambiare. E’ la nostra ultima occasione o dobbiamo rassegnarci a vivere in un paese di schiavi. E non basterà neanche partecipare, bisognerà che ciascuno di noi si attivi al massimo delle proprie possibilità perché questa manifestazione abbia il massimo della partecipazione e il massimo della risonanza. O sarà ancora una occasione sprecata. E non credo che possiamo permettercene ancora.