Spigolature su #Librinnovando

Prima di tutto, fiu! Ce l’abbiamo fatta. Se ci siamo riusciti, è per l’impegno davvero straordinario che ha unito studenti e blogger, durante la fase preparatoria, in una sarabanda di comunicazioni creative e appassionate che hanno continuato ad arricchire e scaldare il clima anche il 27 e il 28.

A tale impegno si è sommato il supporto del Cepell (con la stampa di locandine e pieghevoli) e dell’Università di Roma Tor Vergata (con la disponibilità delle strutture). Sarebbe stato utile un aiuto maggiore, ha ragione Christian Raimo, ma forse avercela fatta così, essere riusciti a convincere i relatori della bontà dell’iniziativa e che valesse la pena venire (in gran parte a proprie spese) fino a Tor Vergata (di questo, lo so, porterò la colpa a vita…), avere raccolto (tra crowdfunding e iscrizioni al workshop) quanto è servito a coprire le minime spese organizzative: tutto questo penso abbia un valore che possiamo, d’ora in avanti, “capitalizzare”. E per la prossima edizione speriamo di trovare una maggiore disponibilità a sostenere la realizzazione di un appuntamento il cui interesse è manifesto, se non altro per le persone arrivate fino a Tor Vergata (oltre 80, in un sabato pomeriggio estivo e in mezzo a un lungo ponte), per non parlare di tutte quelle che hanno seguito lo streaming (800 contatti e 50 collegamenti contestuali in media per tutta la giornata – grazie a Rai Letteratura).

Cosa possiamo dire acquisito dalle due giornate?

  • Gli editori sono ancora largamente assenti dal dibattito sul digitale. Dico proprio il dibattito, quello che abbiamo tentato a Librinnovando, non il semplice misurarsi, chi più chi meno, chi meglio chi peggio, con la conversione dei libri in ebook. Mercato ridotto, paura della pirateria, fase di crisi in cui è difficile investire risorse in alcunché, sono alcune delle ragioni principali. Non se ne esce, però: se non si avvia un’azione diffusa, che solleciti intelligenze e moltiplichi soluzioni innovative, la partita rischiano di giocarla, in beata solitudine, i big del digitale. Altro che oligopoli nostrani, allora.
  • Le sperimentazioni ci sono, ne abbiamo conosciute e fatte conoscere alcune, ma sono ancora davvero troppo poche e, per sovrappiù, anziché costituire dei fari, vengono scrutate con diffidenza e spesso supponenza. Il liceo Lussana o piattaforme come Oilproject andrebbero prese a esempio e utilizzate, oggi, non domani, da istituzioni scolastiche di ogni ordine e grado: si può fare, e un ruolo può averlo proprio l’università (nel supporto alla formazione degli insegnanti, per esempio: lo organizziamo un gruppo di docenti, motivati e preparati, che si faccia carico, nel proprio territorio, di interventi di ausilio all’autoformazione degli insegnanti?). Avviare simili iniziative darebbe una scossa agli editori attivi nella scolastica, obbligati a ripensarsi all’interno di un processo non più diretto unicamente dalle loro scelte.
  • Anche le biblioteche hanno i loro fiori all’occhiello: non sempre i costi delle soluzioni innovative sono proibitivi, a mettersi di traverso sono (quasi) sempre le resistenze al cambiamento. Ma come insegnano le esperienze positive che si stanno iniziando a compiere anche in Italia, pure questi presidi culturali possono trovare nel digitale un amico, piuttosto che un avversario. Potrebbero essere i luoghi nei quali avviare una prima alfabetizzazione all’uso delle tecnologie digitali: sarebbe così peregrino, se anziché mandare tanti studenti tirocinanti in aziende dove finiscono a fare fotocopie li “utilizzassimo” per simili campagne?
  • Sì, gli esempi fin qui partono dalla constatazione che le risorse scarseggiano e molto lavoro dovrebbe essere realizzato in forma volontaria, gratuita o parzialmente tale. È una questione emersa anche durante la discussione sull’autopubblicazione. Sgombrato l’equivoco, sempre presente e fuorviante, che la strada del self publishing possa costituire, da sola, l’alternativa alle storture dell’editoria tradizionale, quali sono i casi che possiamo ritenere virtuosi? Piattaforme come Smashwords o, meglio ancora, esempi di scrittura collaborativa e di peer review sociale che si fanno strada nella ricerca scientifica? Forme di cooperazione alla stesura e revisione dei testi che (la butto lì), in un sistema di scambi non monetari, faccia acquisire “punti”, in autorevolezza riconosciuta e in reciproche prestazioni? Insomma, se il self publishing vuole proporsi come una possibile strada, deve dichiaratamente uscire (e far uscire gli autori più ingenui) dall’imbroglio che chiunque abbia una storia meriti di vederla pubblicata. Diverso ancora è il caso di Barabba, ma loro “fanno un ibuc con un clic” e non si può che applaudirli.
  • E la cura editoriale? Il lavoro di chi vi si applica? Come garantire livelli di qualità nella funzione editoriale (tradizionale o digitale) se i redattori sono in posizione sempre più precaria, se sosteniamo che le case editrici non sono il luogo della selezione di qualità e se pensiamo che il volontariato (sempre che si abbia un altro lavoro per mangiare) sia la migliore garanzia per ottenerla?

Sono solo primi spunti che mi premeva annotare; riflessioni, critiche e proposte stanno arrivando da tanti e in tante forme, dopo le due giornate, che sarà necessario aggiornare presto il catalogo.

Qui, se non ne avete abbastanza, trovate le slide della mia breve apertura del workshop venerdì 27 (cliccate sull’immagine per aprire il link):